Nell’agosto del 1995 partii da Roma, in auto, per un viaggio su cui meditavo da anni: un giro di un paio di settimane nel nord della Francia, focalizzandomi in particolare sulla Bretagna. Lo scopo principale, ispiratomi da Sir Julian di Lambeth, era esplorare un tot di siti nei quali si trovano dolmen, menhir e altre vestigia di architettura megalitica, ma come bonus valutavo un’escursione alla casa in mezzo al nulla nel Finistère dove due anni prima i CSI avevano registrato Ko de mondo. L’album mi aveva folgorato, certo, ma non è che volessi compiere una specie di pellegrinaggio da baciapile: si trattava di una semplice curiosità accesa ovviamente dal disco e da ciò che era stato detto e scritto sul fascino di quel luogo e sull’aura magica in cui era avvolto. Appurato che avrei raggiunto la Fine della Terra, perché non concedermi questo innocente sfizio? Sebbene i navigatori satellitari e Google Maps non esistessero, trovai con facilità Saint-Jean-du-Doigt, ma la ricerca del posto preciso si rivelò più ardua del previsto. Insomma, lasciai perdere e puntai verso Brest, provando ad autoconvincermi che Le Prajou non avrebbe potuto essere migliore del quadro che si era dipinto da solo nella mia mente grazie al vhs dell’epoca, a quanto letto e ascoltato, alla fantasia. Ventinove anni dopo sono forse un minimo pentito della rinuncia, ma ci sono rimpianti peggiori e dunque pazienza. L’importante è che il disco sia rimasto nella memoria, collettiva e non solo mia, e che evochi tuttora emozioni. D’altronde non è un disco convenzionale, un disco come se ne potrebbero fare tanti: è invece il risultato di circostanze irripetibili che infatti non si sono più ripetute, oltre che l’avvio mitico di una lunga storia che avrebbe potuto essere diversa, o più probabilmente non esserci affatto. Un salto nel buio, una sfida. E un grande azzardo, creativo/artistico ma anche pratico, impensabile per i giorni nostri: una major che finanzia una spedizione in Bretagna a una band italiana esordiente, seppure con un passato molto significativo, per realizzare un album decisamente particolare e dunque non facile da vendere? Già. C’è da inchinarsi di fronte alla lungimiranza (o all’incoscienza) di quel manipolo di eroi – non per un giorno – che da quelle visioni non ancora chiare, ancora sfumate, hanno saputo ricavare un capolavoro della musica italiana. A tre decenni dall’uscita di Ko de mondo, Donato Zoppo ha provato a raccontarlo come nessuno aveva mai fatto prima, con gli eventi che hanno assunto la forma di un romanzo in qualche misura epico (ma soprattutto sentimentale) e con i protagonisti della vicenda che appaiono per integrare, spiegare e creare l’atmosfera, come il brandy di quella vecchia pubblicità. «Le parole sono importanti», ammoniva Nanni Moretti, e l’autore è stato bravissimo a scegliere quelle giuste per narrare l’avventura di chi si spinse alla Fine della Terra «per seguir virtute e canoscenza» e dalla Fine della Terra ritornò arricchito, assieme a un oggetto piatto e circolare in grado di illuminare d’immenso chi ci entri in contatto, allora come oggi. Arrivato all’ultima pagina, realizzo come l’immagine di Le Prajou che mi ero costruito sia perfino più suggestiva, e il rimpianto per la non-visita del 1995 si sia dissolto come la nebbia all’alba nelle brughiere. Evidentemente, così doveva andare. Aprile 2024 Federico Guglielmi
